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Il Culto di San Domenico Abate a Montegiordano

San Domenico Abate (Foligno 951 – Sora 22 gennaio 1031), monaco benedettino, fondatore di numerosi monasteri ubicati tra il Lazio, l’Abruzzo e il Molise, era un abate mitrato, cioè preposto ad un'abbazia che governa un territorio sottratto alla giurisdizione del Vescovo e pertanto indossava le insegne episcopali: mitra, pastorale, croce pettorale, anello e guanti.

Diverse sono le denominazioni con cui è conosciuto: oltre a San Domenico Abate, legato alla sua maggiore prerogativa, il santo è noto anche come San Domenico di Foligno dove è nato; San Domenico di Cocullo per la località abruzzese dove si venera maggiormente, [foto n. 1]; San Domenico di Sora dove è morto [foto n. 2].

 

Da un punto di vista iconografico, è rappresentato sia come abate benedettino che come taumaturgo. La sua raffigurazione come abate è quella più antica: indossa la cocolla scura dei benedettini[1], porta il pastorale e un libro che può alludere alla Regola dell’Ordine o al Vangelo. In qualità di taumaturgo, iconografia che si sviluppa in età moderna, è rappresentato sempre come abate ed è accompagnato da simboli (ferro di cavallo, dente, serpenti, cane e putto) che richiamano episodi della sua vita e alcuni dei suoi innumerevoli miracoli per cui viene riconosciuto come guaritore.

 

Il santo, protettore contro il morso dei serpenti e quello dei cani idrofobi, contro tempesta e grandine, contro mal di denti e febbre, è caratterizzato, nella sua forma più recente, dal pastorale nella mano destra e dal ferro di cavallo nella mano sinistra; non indossa la mitra, che in genere è raffigurata ai piedi, perché porta l’aureola.


A Montegiordano, nella seconda domenica di maggio, si celebrava la memoria di San Domenico Abate con una festa che durava quasi tre giorni durante la quale si svolgeva una fiera con bancarelle varie e tanti animali. La domenica il santo veniva portato in processione tra le strade del paese e le bancarelle della fiera che, allestita il sabato, restava nella piazza Risorgimento fino al lunedì mattina.

 

Di San Domenico Abate, nella chiesa madre distrutta nel 1933, si conservava, almeno fino al 1917, come da inventario degli arredi sacri redatto dall’allora parroco don Davide Meo, uno scheletro con testa e mani di legno e un quadro ad olio del pittore Oliva.

 

Dal 1938, o anche prima[2], il manichino di legno venne sostituito con la statua che tutti conosciamo conservata nella chiesa dell'Immacolata [foto n. 3], spesso scambiata per San Nicola per via delle insegne episcopali e anche perché privata del ferro di cavallo, attributo tipico di San Domenico Abate. La statua in legno, con i paramenti riprodotti in gesso, è raffigurata con una pianeta bianca riccamente decorata in oro; un camice impreziosito da ricami all’altezza degli orli valorizzati da fodera di colore rosso, stretto alla vita con cingolo bianco e oro; una stola bianca di cui si vedono i lembi decorati con croce dorata e frangia ai lati aperti della pianeta; un manipolo decorato con croci e spighe dorate, sull’avambraccio sinistro. Sul capo porta la mitra di seta; nella mano destra il pastorale ed ora, in quella sinistra, il ferro di cavallo. In effetti, privata del ferro di cavallo, poco rimane dell’iconografia tipica del santo; non indossa, infatti, né cocolla né scapolare, ma solo la mitra e il pastorale che fanno di lui il San Domenico Abate sostituto del manichino presente nell’elenco del 1917[3].

Mi è venuto anche spontaneo chiedermi, se necessitando sostituire il manichino di San Domenico Abate che portava le insegne vescovili, non si sia optato per una statua che lo raffigurasse nella sua prerogativa principale di facente funzione di episcopo, forse perché si era persa memoria del suo essere abate. Infatti, da noi, il culto del santo non è conosciuto né tantomeno diffuso.

 

Il ferro di cavallo, legato ad un miracolo compiuto dal santo[4], non so se sia stato mai posto nella mano della nostra statua perché se ne ignorava il significato, oppure perché, essendo un oggetto apotropaico di uso profano, mal si accompagnava ad una statua sacra e avrebbe potuto dare adito a critiche. Io stessa, del resto, quando mi interessai alla ristrutturazione della chiesa “vecchia”, nonché al restauro dell’altare e, una volta riaperta al culto, alla sua nuova intitolazione all’Immacolata Concezione, vedendo il ferro di cavallo, poi sparito, appeso ad una parete, mi meravigliai e pensai subito ad una forma persistente di superstizione pagana.

Comunque, questo ferro di cavallo [foto n. 5], ritrovato, dopo tanto cercare, in un cassetto della sagrestia, se sia o no l’originale, se sia o no mai stato posto nella mano della statua, ben si adatta allo spazio rettangolare formato dalla chiusura della mano sinistra del santo, così come pure il pastorale si inserisce perfettamente nell’occhiello dell’altra mano [foto n. 4].

 

L’attento restauro della statua, effettuato nel 2021 dalla dottoressa Stefania Bosco, ha permesso di individuare il ricamo dello stemma episcopale del Vescovo Antonio Cinque nelle infule pendenti della mitra di seta posta sul capo della statua [foto nn. 6 e 7]. Don Antonio Cinque, nato a Morano nel 1767, ex praeposito[5] della Collegiata[6] di Santa Maria Maddalena, fu Vescovo dal 1837 al 1841, anno della sua morte, della Diocesi di Anglona - Tursi, cui apparteneva Montegiordano fino al 1976. In questi suoi quattro anni di episcopato, può aver fatto visita alla nostra parrocchia e aver lasciato a perenne ricordo la sua mitra per adornare il capo del manichino, prima e, in seguito, quello della statua che lo ha sostituito.

La donazione della mitra personale da parte di sua Eccellenza Antonio Cinque sottolinea l’importanza e la venerazione che aveva questo santo nella nostra comunità.

 

L’importanza del culto di San Domenico Abate era, inoltre, sottolineata dal quadro ad olio del pittore Oliva che lo raffigurava. L’artista di origini calabresi, spesso citato anche come Francesco Oliva da Mormanno, formatosi a Napoli, era attivo e famoso in Calabria e Basilicata nella seconda metà del 1700.

 

E sottolineerei in aggiunta che Guglielmo Sanfelice d’Acquavella (Aversa 1834 - Napoli 1897) figlio di Giuseppe duca di Acquavella e di Giovanna de Martino dei baroni di Montegiordano, Arcivescovo di Napoli (1878-1897) e Cardinale (1884-1897) era monaco benedettino dell’Abbazia della Santissima Trinità di Cava de’ Tirreni. Anche questo particolare può aver favorito l’incremento del culto.

 

Vista la sua diffusione soprattutto in area laziale, mi sono chiesta qui da noi a cosa potesse essere collegato il culto di San Domenico Abate di cui se n’è persa memoria (salvo per pochi anziani) tanto da scambiarlo con San Nicola. Ma del santo di Mira, o, come meglio conosciuto, di Bari [foto n. 8] non vi è traccia né nei minuziosi elenchi di statue e suppellettili sacre redatti da don Davide Meo, né in qualche forma di venerazione del santo: il 6 dicembre, che io sappia, non si è mai festeggiato![7]

 

L’unico collegamento possibile, in quanto San Domenico Abate era monaco benedettino, è rintracciabile nella località Caprara[8], dove sorgeva una grancia di proprietà del Monastero di Santa Maria del Sagittario di Chiaromonte (PZ)[9]. Le grange (dal latino granum grano, francese antico granche, granaio) possono essere considerate elementi caratteristici della prima agricoltura cistercense. Quando le proprietà dei monaci diventarono eccessivamente estese per essere coltivate come un unico insieme, vennero suddivise in appezzamenti singoli. I campi aperti vennero così recintati e si costruirono degli edifici a scopo unicamente pratico, per poter servire convenientemente da abitazione ad un gruppo di fratelli conversi[10], per raccogliere gli animali della fattoria, per immagazzinare gli attrezzi indispensabili alla coltivazione e il prodotto delle messi. I primi edifici costruiti per le grange cistercensi non comprendevano una cappella, perché si desiderava che i fratelli ritornassero all’abbazia per gli uffici religiosi. In seguito, con l’ingrandirsi delle proprietà terriere, aumentarono anche le distanze per cui diventava sempre più difficile ritornare al monastero in tempo per gli uffici e allora si pensò di realizzare nelle varie grange delle cappelle.

La grangia della Caprara era abitata, almeno dal 1720[11], da una piccola comunità di frati e, dal 1743, vi era una cappella dedicata a San Michele Arcangelo[12].

A questa comunità è probabile che appartenesse o fosse in qualche modo legato il sacerdote, padre Giovanni Battista Concimatore dell’Ordine cistercense, che nel 1778, nella chiesa parrocchiale di Montegiordano, amministra il battesimo a Carlo Maria Andreassi[13]. Sempre collegato alla famiglia Andreassi, troviamo un altro monaco cistercense, padre don Michele Andriotta, della città di Cosenza, abate del Monastero del Sagittario che dà procura all’eccellentissimo don Filippo dei baroni de Martino di fare da padrino in sua vece, al fratello di Carlo Maria. Il 7 settembre del 1780, il figlio di don Domenico Andreassi e Isabella Coppola[14], in imminente pericolo di morte viene battezzato in casa dall’ostetrica Diamanta D’Elia; lo stesso giorno, mese ed anno, l’infante fu portato in chiesa e battezzato dal reverendo arciprete don Clemente Andreassi e gli fu imposto il nome di Pietro, Antonio, Maria, Michele, Francesco, Gaetano, Tommaso, Raffaele, Raimondo, Alfonso (trattasi di un’unica persona con dieci nomi!).

Da quanto appena riportato, risulta evidente il legame della nota famiglia Andreassi con i monaci cistercensi. Se si tiene conto del fatto che in questa famiglia a partire dalla seconda metà del 1700 sino alla fine del 1800 si annoverano sei sacerdoti di cui tre con carica di arciprete:

  1. Pietro Antonio (n. 1712/13 – m. 1787?), arciprete dal 1763 al 1772;
  2. Giuseppe, sacerdote almeno dal 1769 al 1774;
  3. Clemente (n. 7 luglio 1745 – m. 1 giugno 1814), arciprete dal 1774 al 1791;
  4. Domenico (n. 1723/24), sacerdote almeno dal 1777 al 1781;
  5. Carlo Maria (n. 30 marzo 1778 – m. 4 ottobre 1850), sacerdote a Montegiordano dal 1804 al 1813 poi ad Amendolara;
  6. Giuseppe (n. 29 settembre 1813 – m. 13 novembre 1981), arciprete dal 1850 al 1891

viene facile pensare che abbiano introdotto o quantomeno favorito il culto di San Domenico Abate. Inoltre, Isabella Andreassi, sorella dell’arciprete Giuseppe, sposa nel 1825, Giuseppe V Mazzario la cui famiglia acquista nel 1811 la proprietà della Caprara dal Regio Demanio cui erano passati i beni del Monastero del Sagittario dopo il 1807.

Questo è quanto sono riuscita a ricostruire. Purtroppo gli elementi a mia disposizione sono davvero scarsi, con piccoli indizi ho cercato di fornire, seguendo una certa logica, un’elaborazione storico-religiosa.

 

Teresa Carla Loprete

 

[1] Nella zona del frusinate che orbita intorno al Monastero di Sora, porta l’abito cistercense, cocolla bianca e scapolare nero, oltre alle insegne che lo qualificano come abate. Tale “cambio d’abito” è legato al passaggio di gestione del Monastero di Sora, fondato da lui, ai Cistercensi di Casamari nel 1202.

[2] La data, 1938, è scritta alla base della statua insieme al nome, Giov Marino, dello scultore o restauratore di Trebisacce.

[3] I paramenti riprodotti sono di molto simili a quelli che indossa la statua della fine del ‘700 (che è più propriamente un manichino vestito nel senso che testa, mani, piedi sono lignei, mentre il corpo è composto da materiali più leggeri) di San Nicola conservata a Bari nella Basilica a lui dedicata.

[4] Il santo ordinò alla sua mula Giulia di restituire il ferro al maniscalco che glielo aveva messo perché questi voleva un compenso esagerato. E così la mula scrollò la zampa e il ferro si schiodò miracolosamente cadendo a terra.

[5] Dal latino Praepositus ha il significato di sovrintendente, comandante, governatore. È probabile che don Antonio Cinque sia stato a capo del collegio di canonici della Collegiata di Santa Maria Maddalena (v. nota successiva).

[6] Collegiata è il titolo attribuito a quelle chiese non cattedrali in cui la Santa Sede ha istituito un capitolo o collegio cioè un’assemblea di presbiteri o di religiosi, dotata di personalità giuridica e di autorità normativa, definiti canonici, per provvedere al servizio divino in modo solenne. Generalmente mantiene il titolo di collegiata anche nel caso in cui il capitolo dei canonici venga a cessare. L'origine delle collegiate risale al VI secolo, alla fondazione dell'ordine benedettino: all'epoca era nata l'usanza che i signori di un territorio facessero costruire delle chiese e le affidassero per il culto a un capitolo di religiosi, che spesso erano monaci benedettini. Lo scopo era di assicurarsi la preghiera quotidiana di un gruppo di religiosi, per ottenere la salvezza eterna per i propri parenti defunti e per loro stessi, che si riservavano il privilegio di far porre la propria tomba all'interno della chiesa collegiata.

[7] L’unica traccia di un presunto san Nicola è un quadro ad olio di ottima fattura che si conserva presso privati. Ma è probabile che si tratti di San Domenico Abate raffigurato nella sua iconografia più antica, con mitra, pastorale e libro; mancano, infatti, sul libro i tre sacchetti sferici che caratterizzano il Santo di Bari. Al collo porta un medaglione con la miniatura di una donna; potrebbe ricordare uno dei tanti miracoli effettuati da San Domenico Abate nel liberare donne e fanciulle dal demonio oppure dal flusso di sangue inarrestabile.

[8] La località Caprara, del Comune di Montegiordano, confina a Sud-Ovest con il territorio di Oriolo e ad Est con quello di Roseto (Foglio IGM 212 III S. O. sez. B, scala 1:10.000)

[9] Il monastero, fondato dai Benedettini nel 1060/ 1152, passò ai Cistercensi di Casamari nel 1202 ed in seguito, nel 1633, alla Congregazione Calabro Lucana. L’Abbazia venne soppressa nel 1807. Fino al 2 agosto 1806, data in cui venne promulgata la legge per la soppressione della feudalità e degli Ordini monastici, il Comune di Montegiordano versava al Monastero la tassa di ducati sei per le messe; lo apprendiamo dalla richiesta di abolizione presentata al Regio Demanio.

[10] I fratelli conversi erano persone laiche, che avevano scelto di vivere secondo le regole di uno spirito austero, all'interno dei Monasteri cistercensi. Di questi, quelli che volevano entrare in convento, facevano il noviziato di un anno durante il quale imparavano a memoria alcune preghiere. Alla fine dell’anno di prova pronunciavano i voti facendo promessa all’abate di obbedienza “fino alla morte”. Con questa professione diventavano religiosi a pieno diritto, pur non potendo diventare monaci di coro o sacerdoti.

[11] Come risulta dal pagamento del censo enfiteutico versato annualmente all’abate commendatario di Santa Maria del Sagittario.

[12] Da tradizione orale di ricordi di persone di Montegiordano, ho appreso che, almeno fino agli anni cinquanta del 1900, la cappella che era pavimentata e si conserva nell’alzato, era dedicata anche a San Nicola. Ed effettivamente alcuni toponimi a suo nome ne attesterebbero la presenza almeno dal 1743. Il santo è venerato a Roseto nella chiesa madre a lui intitolata [foto n. 9].  A Montegiordano, come ho già detto, la venerazione del santo non è mai stata contemplata; mentre il culto di San Michele Arcangelo era testimoniato da un quadro ad olio che lo raffigurava conservato nella chiesa madre distrutta almeno fino al 1917, ma di cui, oggi, non vi è più traccia.

[13]Carlo Maria Andreassi (Francesco, Saverio, Carlo Maria, Pietro, Antonio), nato a Montegiordano il 29/9/1778 da Domenico e Isabella Coppola, morì ad Amendolara il 4/10/1850 dove fu parroco dal 1813. La sua tomba si conserva nella chiesa madre di Santa Margherita come attesta la lapide posta a memoria dai due nipoti, Domenico, giudice di Cerchiara, e Giuseppe, arciprete di Montegiordano, figli del fratello Pietro.

[14] Isabella Coppola di Altomonte era sorella di Reginaldo, padre e maestro provinciale dell’Ordine dei Domenicani, Vescovo di San Marco Argentano dal 1797 al 1810 anno della sua morte.